sabato 5 ottobre 2013

Everyone's Reading Bastard - Nick Hornby



Non sono una grandissima fan di Nick Hornby: anni fa avevo letto “Alta fedeltà” e mi era piaciuto, ma non così tanto da spingermi a interessarmi ancora alla produzione di Hornby. Comunque sia, un po’ di tempo fa vari blog hanno iniziato a segnalare l’ultimo testo di questo autore e mi sono incuriosita. È un racconto abbastanza breve (l’ebook è di una trentina di pagine) che inizia con il protagonista, Charlie, che si separa dalla moglie. Affrontare la fine di un matrimonio è sempre difficile, ma lo diventa ancora di più se la tua ex moglie è una giornalista che ha costruito la propria notorietà sul raccontare tutto, ma proprio tutto, della propria vita. Il che significa che ora inaugura una rubrica intitolata Bastard! in cui racconta urbi et orbi le tue nefandezze coniugali: da quella volta in cui ti sei ubriacato la vigilia di Natale, a quando hai imprecato davanti ai figli, senza tralasciare le tue performance non proprio ottimali a letto. La rubrica è pubblicata sia sul giornale cartaceo che sulla versione online, quindi chiunque può sbirciare nella vita privata di Charlie e lasciare un commento. Credo che un grande punto di forza di questo racconto sia proprio il fatto che sottolinea come la nostra società, grazie a un uso talvolta improprio della tv e di internet, stia diventando sempre più… mi verrebbe da dire “pettegola”, ma non è il termine adatto. La curiosità per gli affari altrui è sempre esistita, quello a cui stiamo assistendo ora è che chiunque, protetto dall’anonimato di un nickname, può ergersi a giudice della vita di perfetti sconosciuti e dispensare a piene mani opinioni e consigli spesso non richiesti. Charlie, esposto al pubblico ludibrio, si sente ovviamente ferito e cerca di ignorare tutta la faccenda... Termino qui perché, vista la brevità del racconto, potrei fare qualche spoiler e sarebbe un peccato. Secondo me il materiale è molto interessante e avrebbe potuto anche essere sfruttato per una narrazione più lunga. Una domandina per l’editore Guanda: nove euro per un libro di 65 pagine non sono un po’ tanti?

giovedì 3 ottobre 2013

Helen Forrester (post cumulativo)



Avevo iniziato a leggere Twopence to Cross the Mersey senza particolari aspettative: non conoscevo l’autrice e la storia non sembrava molto allegra. Helen è la primogenita di una famiglia benestante che perde tutto nella crisi del ’29 e si trasferisce nei quartieri degradati di Liverpool per ricominciare da capo. I genitori di Helen hanno la deplorevole tendenza a sfornare figli (sette in totale) e poi a disinteressarsene: danno per scontato che la primogenita, che ha dieci anni quando il racconto inizia, accantonerà di buon grado tutti i propri sogni per dedicarsi ai fratelli e alle sorelle. La madre, abituata alle conversazioni brillanti con gli intellettuali e ad avere varie persone di servizio, fatica moltissimo ad abituarsi alla nuova vita. Il padre, che ha fatto delle speculazioni sbagliate e non si è mai del tutto ripreso dall’orrore della Grande Guerra, deve accettare un lavoro umile per mantenere la famiglia.


Con questo materiale autobiografico, molti scrittori avrebbero potuto calcare la mano sui toni patetici o addirittura melensi. Il bello della Forrester, invece, è che non si piange mai addosso: lo stile è sempre asciutto ed essenziale, i fatti vengono mostrati per quello che sono e il lettore è libero di trarre le proprie conclusioni. In quattro volumi (Twopence to Cross the Mersey, Liverpool Miss, By the Waters of Liverpool, Lime Street at Two) Helen Forrester racconta la storia della propria famiglia dal ’29 fino al secondo dopoguerra: una famiglia segnata da conflitti e litigi, in cui le normali discussioni causate dalle differenze caratteriali sono esacerbate dalla povertà estrema. Non c’è mai abbastanza cibo e mancano elementi essenziali della vita quotidiana, come il sapone e le coperte (per non parlare del riscaldamento o dell’acqua corrente). I familiari di Helen danno per scontato che lei stia sempre a casa e la ragazza dovrà lottare per poter studiare e poi andare a lavorare. Sullo sfondo, la Liverpool dell’epoca: una città povera e sporca, i cui abitanti però sono capaci di gentilezza e generosità. Mi ha colpito molto la parte sulla Seconda Guerra Mondiale: la città è sconvolta dai bombardamenti e appena tramonta il sole bisogna oscurare tutti i vetri per evitare di dare punti di riferimento alla Luftwaffe. Una sera, mentre torna dal lavoro, il padre di Helen inciampa in un mucchio di detriti e cade. Un passante lo sente, si avvicina e lo aiuta a rialzarsi. Nella caduta il signor Forrester ha perso la sua torcia e l’uomo si offre di accompagnarlo a casa. I due si incamminano e il padre di Helen arriva a casa sano e salvo. Ringrazia il suo soccorritore e si meraviglia di come sia riuscito a portarlo a destinazione nel buio fitto, senza neanche una luce flebile: “Oh, non ne ho bisogno” risponde l’altro “Sono nato cieco”. Ecco, questo episodio del cieco che accompagna uno che ci vede in una città stravolta dalla guerra mi è rimasto impresso e credo che costituisca una delle testimonianze - di cui i libri della Forrester sono ricchi – di come sia possibile vivere in condizioni estremamente difficili.


Credo che questi volumi non siano mai stati tradotti in italiano, secondo me meriterebbero.  

martedì 1 ottobre 2013

Agatha Raisin e il veterinario crudele - M.C. Beaton



Titolo: Agatha Raisin e il veterinario crudele

Autrice: M.C. Beaton

Traduzione: Marina Morpurgo

Casa editrice: Astoria

Pagine: 219

Prezzo: 15 euro






“Agatha Raisin e il veterinario crudele”, consigliatomi dalla Leggivendola, è in realtà il secondo volume della serie (il primo è “Agatha Raisin e la quiche letale”). Come però la cara Leggivendola mi aveva spiegato, non è fondamentale leggere i libri nell’ordine in cui sono stati scritti, quindi ho cominciato da questo.
Agatha Raisin è una cinquantenne che ha deciso di ritirarsi dall’attività di pubbliche relazioni per andare in pensione a Carsely, un ameno villaggetto nei Cotswolds. Avete presente quei posticini di campagna dove tutti si conoscono e le signore si incontrano per prendere il tè dalla moglie del pastore? Ecco, un luogo così. Per motivi ad oggi sconosciuti, fin dai tempi di Agatha Christie questi graziosi villaggi sono periodicamente funestati da orrendi delitti e Carsely non fa eccezione (a volte sospetto che questi villaggi abbiano un tasso di criminalità più alto di quello di Caracas).
Nello specifico, il morto è il fascinoso veterinario, Paul Bladen, molto corteggiato dalle signore e ottimo medico per i cavalli e gli animali da cortile, ma stranamente negato per la cura di cani e gatti. All’inizio la polizia ritiene che la morte sia avvenuta per cause accidentali, ma Agatha si rende subito conto che c’è qualcosa di strano e tenta di saperne di più. La aiuta nelle indagini il suo vicino di casa, James Lacey, un maggiore in pensione per il quale Agatha ha una cotta - peccato che lui rifugga come la peste la sola idea di una relazione con lei. Agatha è un personaggio interessante perché ha un sacco di difetti: è impulsiva, ostinata e a causa delle proprie origini non proprio nobili si sente un po’ a disagio nell’ambiente altolocato della campagna inglese. Questa figura imperfetta risulta subito simpatica e rende la lettura molto piacevole e scorrevole.
Parte del merito è senza dubbio dell’ottima traduzione di Marina Morpurgo (della cui attività come scrittrice avevo invece parlato qui), che rende benissimo il caratteristico humour inglese. Mi permetto di fare solo un piccolo appunto, relativo a un elemento che mi è capitato spesso di incontrare nelle traduzioni di gialli inglesi. Sappiamo che in questi libri le indagini si fanno spesso spettegolando e quale occasione migliore di un tè? Il quale è di solito accompagnato dalle ‘focaccine’. L’abbinamento tè e focaccine mi ha sempre lasciato un po’ perplessa, ma si sa, paese che vai cucina che trovi, se non fosse che un bel giorno ho scoperto che queste benedette focaccine in inglese si chiamano scones. Dato che li ho mangiati (in Irlanda. Son buoni!), vorrei dire sommessamente che non c’entrano nulla con le focaccine come di solito le intendiamo in Italia. Si tratta di prodotti da forno che spesso vengono serviti con marmellata, burro o panna acida, ma possono essere mangiati anche con il formaggio o il prosciutto. Non credo che i traduttori non sappiano cosa sono, ma capisco che sia difficile tradurre il termine in italiano. Magari gli editori decidono che è meglio mettere ‘focaccine’, che secondo me però è un addomesticamento eccessivo e un po’ fuori luogo. Io lascerei l’originale, al limite con una nota (ma so che molti editori sono contrari all’uso delle note nella narrativa).