Brian
e Charles è una commedia diretta da Jim Archer, vincitrice del premio
Audience Favourite al Sundance Film Festival, nei cinema italiani dal 31
agosto.
Il protagonista, Brian Gittins,
è un tipo piuttosto solitario che, come antidoto a un periodo difficile, si
mette a costruire invenzioni strampalate con materiali di recupero. Un giorno,
trova in una discarica la testa di un manichino e, unendola a una lavatrice e
ad altri oggetti eterogenei, crea un robot. Durante una notte buia e
tempestosa, il robot prende vita, inizia a parlare e si sceglie il nome di Charles
Petrescu. Inizia così una bizzarra ma tutto sommato gradevole convivenza fra i
due: Charles ha un particolare senso dell’umorismo ed è desideroso di imparare,
Brian gli insegna quello che sa e si fanno compagnia a vicenda. A poco a poco,
però, Charles diventa insofferente nei confronti del ristretto mondo di Brian -
un piccolo villaggio del Galles del nord, uno di quei posti dove le pecore
attraversano la strada - e esprime il desiderio di viaggiare ed esplorare posti
nuovi. Brian, dal canto suo, è diffidente nei confronti degli estranei e non sa
quale accoglienza potrebbe ricevere Charles, con il suo aspetto sgraziato e le
sue manifestazioni eccentriche. Quando il bullo del villaggio viene a
conoscenza dell’esistenza di Charles, la felicità di Brian viene messa a dura
prova.
Non proseguo oltre con il
racconto della trama per evitare di svelare ulteriori dettagli, ma posso dire
che Brian e Charles riesce, in modo
lieve ma non superficiale, a suscitare nello spettatore domande e riflessioni
tutt’altro che banali. Rievocando suggestioni che ci rimandano a grandi
classici della letteratura quali Frankenstein
e Pinocchio, questa pellicola ci
porta a interrogarci sul nostro rapporto con le persone alle quali vogliamo
bene, a quale sia il confine fra desiderio di protezione e libertà individuale,
sulle paure di chi è genitore, magari di un figlio con delle caratteristiche
particolari. Tutto questo senza perdere la leggerezza, con un’aura da fiaba
moderna, sullo sfondo di un paesaggio rurale, dove è la natura a dominare,
grazie anche al fatto che il film è stato girato durante la pandemia. Insomma,
un modo intelligente per trascorrere un’ora e mezza, secondo me adatto anche ai
bambini, e che può diventare lo spunto per riflettere insieme su tematiche
complesse.
Doppia recensione: romanzo e
film che dal libro è stato tratto. I
sette killer dello Shinkansen, pubblicato in Giappone nel 2010 e arrivato
in Italia nel 2021 con la traduzione di Bruno Forzan, è un thriller originale,
anche se, come vedremo, non mancano i richiami ad elementi classici della
tradizione del giallo e dei film d’azione.
Il termine “Shinkansen” indica la rete ferroviaria
giapponese di treni ad alta velocità percorsa dai cosiddetti “treni proiettile”,
dai quali prende il titolo il film distribuito dalla Sony, nelle sale italiane
dal 25 agosto 2022.
Proprio su uno di questi treni, in partenza da Tokyo, si
incrociano e finiscono con l’intrecciarsi indissolubilmente le sorti di alcuni
assassini professionisti, che, da buoni esperti della malavita, si fanno
chiamare con dei soprannomi. Alcuni di loro hanno scelto il proprio nome
d’arte, come i soci Lemon e Mikan (un frutto simile al mandarino, infatti nel
film questo personaggio si chiama Tangerine), o utilizzano un cognome
altisonante, come Oji, che significa “Principe”, mentre c’è chi si ritrova un
nickname affibbiato da altri come presa in giro: è il caso di Nanao, a suo dire
perseguitato dalla malasorte, che viene chiamato Coccinella, noto simbolo
portafortuna. La donna che passa gli incarichi a Coccinella, l’enigmatica
Maria, che per buona parte del romanzo è solo una voce al telefono, spiega a
Nanao che il lavoro che dovrà svolgere è facile e privo di rischi: deve
semplicemente salire sul treno a Tokyo, rubare una valigetta e scendere alla
prima fermata. Niente di più e niente di meno, un’attività pulita e di tutto
riposo.
Coccinella, abituato agli imprevisti che la sfortuna si diverte ad
architettare ai suoi danni, è poco convinto, ma decide di accettare, anche se
porta con sé un kit con vari strumenti per ogni evenienza. E fa bene, perché poco
dopo la partenza del treno si rende conto che la faccenda è molto più
ingarbugliata di come gliel’aveva prospettata Maria: tanto per cominciare, la
valigetta da rubare appartiene a Lemon e Mikan, ben decisi a non cederla a
nessuno. Lemon e Mikan, così simili nell’aspetto fisico da essere noti come “i
gemelli” nell’ambiente malavitoso, per carattere non potrebbero essere più
diversi. Lemon, impulsivo e impaziente, è un appassionato del cartone animato Il trenino Thomas, dal quale ha tratto
innumerevoli lezioni di vita che non si stanca di elargire a chiunque lo
ascolti, e soprattutto all’amico Mikan, riflessivo e grande lettore dei
classici della letteratura mondiale. Ma chi è, invece, il giovane che viaggia
insieme a loro e che ad un certo punto appare inequivocabilmente morto? Cosa
contiene la valigetta che Coccinella deve rubare e chi è il vero mandante del
furto? Tutto questo non passa inosservato allo sguardo indagatore di Oji,
studente delle scuole medie dall’aria compita e personaggio forse più
inquietante del romanzo, che viaggia insieme a Kimura, un uomo sulla
quarantina, alcolizzato e con un torbido passato. Il legame che unisce il
ragazzino di buona famiglia e l’uomo dall’aspetto poco raccomandabile è
costituito dal figlio di Kimura, il piccolo Wataru, che giace in coma in un
letto d’ospedale. Ma perché fra i passeggeri c’è anche un serpente
molto velenoso? E ancora, cosa ci fa sul treno un delinquente di mezza tacca
come il Lupo, che passa il tempo a raccontare di aver compiuto imprese
mirabolanti senza che nessuno gli creda?
Sono questi - e molti altri - gli
ingredienti che Isaka Kōtarō, classe 1971, miscela con sapienza per confezionare un thriller
un po’ lungo, ma avvincente, nel quale ogni capitolo è presentato dal punto di
vista di uno o due dei personaggi. L’ambientazione sul treno è sicuramente un
elemento non nuovo che si richiama alla tradizione del giallo, basti pensare al
capolavoro di Agatha Christie Assassinio
sull’Orient Express, ma Kōtarō aggiunge qualche tocco di modernità in grado
di svecchiare il tutto. Il treno, peraltro, funziona bene anche come una sorta
di “camera chiusa”: è un luogo nel quale, tra una fermata e l’altra, nessuno
può scendere né salire e i personaggi hanno un limitato spazio per muoversi.
Coccinella e la sventura che si porta dietro non sfigurerebbe in un film di
Tarantino, anche se i personaggi che mi ricordano di più le creature del
maestro di Pulp Fiction sono
indubbiamente Lemon e Mikan, caratterizzati da piccole manie e autori di
dialoghi frizzanti e al limite del surreale.
Passiamo a Bullet
Train: a me è piaciuto, anche se non lo definirei una trasposizione
fedelissima del romanzo. I personaggi del libro sono tutti giapponesi, mentre
la quasi totalità degli attori è occidentale. Alcuni, come Coccinella,
interpretato da Brad Pitt, o Lemon e Tangerine, che hanno il volto di Brian
Tyree Henry e Aaron Taylor Johnson, presentano una caratterizzazione
psicologica abbastanza dettagliata che tutto sommato rispecchia quella delineata nel romanzo.
A mio avviso, invece, non si può dire lo stesso di Oji, che i lettori arrivano
a conoscere molto bene, e nel film invece viene descritto (anzi, descritta) in
modo un po’ superficiale. Al contrario, il Lupo del film ha una storia
personale complessa e un background decisamente interessante, a differenza del
suo omologo del testo scritto.
Le modifiche
realizzate nel passaggio dal libro alla versione cinematografica non si fermano
qui, e mi rendo conto che questo potrebbe non piacere a chi si aspetta una resa
aderente all’originale. D’altronde, credo che l’operazione di trasporre un
romanzo in un film per il cinema abbia delle affinità con la traduzione da una
lingua a un’altra, attività che espone sempre i traduttori alla possibilità, e
talvolta alla necessità, di effettuare dei cambiamenti e quindi di rischiare le
critiche da parte del pubblico esigente. Non vorrei scomodare la secolare
questione “Tradurre è un po’ tradire?”, anche se mi piace ricordare una
citazione del traduttore François Vaucluse: “La traduzione sposa il
testo, lo tradisce di nascosto, ma, se è compiacente, lo arricchisce”.
Senza
avventurarmi nel terreno accidentato di questioni filologiche, che vanno al di
là dell’obiettivo di questa recensione, credo però che sia interessante
riflettere su come i film, che traspongono la parola scritta nel linguaggio
visivo, per non parlare dell’apporto dato dalle colonne sonore, possano
prendersi delle libertà rispetto ai romanzi. Libertà che non danneggiano il
testo di partenza, ma anzi, possono arricchirlo di suggestioni nuove e spunti
di riflessione inediti. Bullet Train
non è, dunque, una trasposizione totalmente fedele de I sette killer dello Shinkansen, ma è
un film divertente, dal ritmo serrato, interpretato da attori in ottima forma e
ricco di scene d’azione. Se pensate che possa essere il vostro genere, non
lasciatevelo sfuggire.