lunedì 29 agosto 2022

Doppia recensione: I sette killer dello Shinkansen di Isaka Kōtarō e Bullet Train

 

Doppia recensione: romanzo e film che dal libro è stato tratto. I sette killer dello Shinkansen, pubblicato in Giappone nel 2010 e arrivato in Italia nel 2021 con la traduzione di Bruno Forzan, è un thriller originale, anche se, come vedremo, non mancano i richiami ad elementi classici della tradizione del giallo e dei film d’azione.




Il termine “Shinkansen” indica la rete ferroviaria giapponese di treni ad alta velocità percorsa dai cosiddetti “treni proiettile”, dai quali prende il titolo il film distribuito dalla Sony, nelle sale italiane dal 25 agosto 2022. 

Proprio su uno di questi treni, in partenza da Tokyo, si incrociano e finiscono con l’intrecciarsi indissolubilmente le sorti di alcuni assassini professionisti, che, da buoni esperti della malavita, si fanno chiamare con dei soprannomi. Alcuni di loro hanno scelto il proprio nome d’arte, come i soci Lemon e Mikan (un frutto simile al mandarino, infatti nel film questo personaggio si chiama Tangerine), o utilizzano un cognome altisonante, come Oji, che significa “Principe”, mentre c’è chi si ritrova un nickname affibbiato da altri come presa in giro: è il caso di Nanao, a suo dire perseguitato dalla malasorte, che viene chiamato Coccinella, noto simbolo portafortuna. La donna che passa gli incarichi a Coccinella, l’enigmatica Maria, che per buona parte del romanzo è solo una voce al telefono, spiega a Nanao che il lavoro che dovrà svolgere è facile e privo di rischi: deve semplicemente salire sul treno a Tokyo, rubare una valigetta e scendere alla prima fermata. Niente di più e niente di meno, un’attività pulita e di tutto riposo. 

Coccinella, abituato agli imprevisti che la sfortuna si diverte ad architettare ai suoi danni, è poco convinto, ma decide di accettare, anche se porta con sé un kit con vari strumenti per ogni evenienza. E fa bene, perché poco dopo la partenza del treno si rende conto che la faccenda è molto più ingarbugliata di come gliel’aveva prospettata Maria: tanto per cominciare, la valigetta da rubare appartiene a Lemon e Mikan, ben decisi a non cederla a nessuno. Lemon e Mikan, così simili nell’aspetto fisico da essere noti come “i gemelli” nell’ambiente malavitoso, per carattere non potrebbero essere più diversi. Lemon, impulsivo e impaziente, è un appassionato del cartone animato Il trenino Thomas, dal quale ha tratto innumerevoli lezioni di vita che non si stanca di elargire a chiunque lo ascolti, e soprattutto all’amico Mikan, riflessivo e grande lettore dei classici della letteratura mondiale. Ma chi è, invece, il giovane che viaggia insieme a loro e che ad un certo punto appare inequivocabilmente morto? Cosa contiene la valigetta che Coccinella deve rubare e chi è il vero mandante del furto? Tutto questo non passa inosservato allo sguardo indagatore di Oji, studente delle scuole medie dall’aria compita e personaggio forse più inquietante del romanzo, che viaggia insieme a Kimura, un uomo sulla quarantina, alcolizzato e con un torbido passato. Il legame che unisce il ragazzino di buona famiglia e l’uomo dall’aspetto poco raccomandabile è costituito dal figlio di Kimura, il piccolo Wataru, che giace in coma in un letto d’ospedale. Ma perché fra i passeggeri c’è anche un serpente molto velenoso? E ancora, cosa ci fa sul treno un delinquente di mezza tacca come il Lupo, che passa il tempo a raccontare di aver compiuto imprese mirabolanti senza che nessuno gli creda? 

Sono questi - e molti altri - gli ingredienti che Isaka Kōtarō, classe 1971, miscela con sapienza per confezionare un thriller un po’ lungo, ma avvincente, nel quale ogni capitolo è presentato dal punto di vista di uno o due dei personaggi. L’ambientazione sul treno è sicuramente un elemento non nuovo che si richiama alla tradizione del giallo, basti pensare al capolavoro di Agatha Christie Assassinio sull’Orient Express, ma Kōtarō aggiunge qualche tocco di modernità in grado di svecchiare il tutto. Il treno, peraltro, funziona bene anche come una sorta di “camera chiusa”: è un luogo nel quale, tra una fermata e l’altra, nessuno può scendere né salire e i personaggi hanno un limitato spazio per muoversi. Coccinella e la sventura che si porta dietro non sfigurerebbe in un film di Tarantino, anche se i personaggi che mi ricordano di più le creature del maestro di Pulp Fiction sono indubbiamente Lemon e Mikan, caratterizzati da piccole manie e autori di dialoghi frizzanti e al limite del surreale.




Passiamo a Bullet Train: a me è piaciuto, anche se non lo definirei una trasposizione fedelissima del romanzo. I personaggi del libro sono tutti giapponesi, mentre la quasi totalità degli attori è occidentale. Alcuni, come Coccinella, interpretato da Brad Pitt, o Lemon e Tangerine, che hanno il volto di Brian Tyree Henry e Aaron Taylor Johnson, presentano una caratterizzazione psicologica abbastanza dettagliata che tutto sommato rispecchia quella delineata nel romanzo. A mio avviso, invece, non si può dire lo stesso di Oji, che i lettori arrivano a conoscere molto bene, e nel film invece viene descritto (anzi, descritta) in modo un po’ superficiale. Al contrario, il Lupo del film ha una storia personale complessa e un background decisamente interessante, a differenza del suo omologo del testo scritto.

Le modifiche realizzate nel passaggio dal libro alla versione cinematografica non si fermano qui, e mi rendo conto che questo potrebbe non piacere a chi si aspetta una resa aderente all’originale. D’altronde, credo che l’operazione di trasporre un romanzo in un film per il cinema abbia delle affinità con la traduzione da una lingua a un’altra, attività che espone sempre i traduttori alla possibilità, e talvolta alla necessità, di effettuare dei cambiamenti e quindi di rischiare le critiche da parte del pubblico esigente. Non vorrei scomodare la secolare questione “Tradurre è un po’ tradire?”, anche se mi piace ricordare una citazione del traduttore François Vaucluse: “La traduzione sposa il testo, lo tradisce di nascosto, ma, se è compiacente, lo arricchisce”. 

Senza avventurarmi nel terreno accidentato di questioni filologiche, che vanno al di là dell’obiettivo di questa recensione, credo però che sia interessante riflettere su come i film, che traspongono la parola scritta nel linguaggio visivo, per non parlare dell’apporto dato dalle colonne sonore, possano prendersi delle libertà rispetto ai romanzi. Libertà che non danneggiano il testo di partenza, ma anzi, possono arricchirlo di suggestioni nuove e spunti di riflessione inediti. Bullet Train non è, dunque, una trasposizione totalmente fedele de I sette killer dello Shinkansen, ma è un film divertente, dal ritmo serrato, interpretato da attori in ottima forma e ricco di scene d’azione. Se pensate che possa essere il vostro genere, non lasciatevelo sfuggire.