Vi siete mai chiesti cosa vi
porta a scegliere un libro piuttosto che un altro? A volte acquisto un certo
libro perché mi piace l’autore, mi è stato consigliato da qualcuno o ho letto
una recensione che mi ha incuriosita, ma più spesso i motivi delle mie scelte
in fatto di libri sono di altro genere. Non sono sempre razionali, anzi, a
pensarci bene mi rendo conto che possono essere connessi con aspetti emotivi
dei quali non sempre sono consapevole nel momento in cui prendo un volume dallo
scaffale della libreria, sfoglio qualche pagina e lo porto a casa con me.
Chissà poi se sono io a scegliere quel libro o, viceversa, in qualche modo è il
libro che sceglie me.
Credo che uno di questi
meccanismi estremamente personali mi abbia guidata, forse un po’ a mia
insaputa, anche nella scelta di Il lungo inverno di Ugo Singer, di Elisa
Ruotolo. Sulla copertina troviamo i protagonisti del racconto, cioè la
tartaruga Ugo e il topolino Sam, realizzati, come tutte le illustrazioni del
testo, da Chiara Palillo. A guardarli ora capisco che lo stile delicato mi
evoca quello di Beatrix Potter, i cui personaggi mi hanno tenuto compagnia
durante l’infanzia. La storia racconta l’amicizia fra due creature che non
potrebbero essere più diverse: la tartaruga Ugo è lenta, vive a lungo e coltiva
con tenacia il sogno di vedere il mondo e le stagioni, mentre il topolino Sam
ha a disposizione una breve esistenza e si accontenta di trascorrerla quasi
tutta nello scantinato buio e umido nel quale il caso lo ha fatto nascere.
Nonostante il carapace che lo rallenta e il letargo che la sua natura gli
impone, Ugo vuole scoprire cosa c’è fuori dai confini che conosce da quando è
nato. D’altronde, i suoi genitori erano riusciti a fuggire insieme da un
allevamento, e, nonostante i timori di sua madre, Ugo non si rassegna a una
vita nascosta. Sam, dopo un’iniziale resistenza, lo aiuterà a realizzare il suo
sogno.
In questa fiaba moderna e
poetica, accompagnata dalle illustrazioni evocative, non c’è una morale
esplicita. Ogni lettore può quindi ricavare il messaggio che preferisce. A me
piace pensare che in ognuno di noi può esserci un po’ di Ugo: una parte sognatrice,
che è consapevole delle proprie limitazioni, ma continua a coltivare i propri
desideri, a immaginare un altrove e a creare un piano per arrivarci, prima o
poi.
Il Salone del Libro di Torino si svolgerà dal 18 al 22 maggio e come di consueto sarà ospitato da Lingotto Fiere. Il tema di quest'anno è "Attraverso lo specchio" e il programma completo sarà online dal 13 aprile.
Trovate tutte le informazioni sul sito del Salone.
Brian
e Charles è una commedia diretta da Jim Archer, vincitrice del premio
Audience Favourite al Sundance Film Festival, nei cinema italiani dal 31
agosto.
Il protagonista, Brian Gittins,
è un tipo piuttosto solitario che, come antidoto a un periodo difficile, si
mette a costruire invenzioni strampalate con materiali di recupero. Un giorno,
trova in una discarica la testa di un manichino e, unendola a una lavatrice e
ad altri oggetti eterogenei, crea un robot. Durante una notte buia e
tempestosa, il robot prende vita, inizia a parlare e si sceglie il nome di Charles
Petrescu. Inizia così una bizzarra ma tutto sommato gradevole convivenza fra i
due: Charles ha un particolare senso dell’umorismo ed è desideroso di imparare,
Brian gli insegna quello che sa e si fanno compagnia a vicenda. A poco a poco,
però, Charles diventa insofferente nei confronti del ristretto mondo di Brian -
un piccolo villaggio del Galles del nord, uno di quei posti dove le pecore
attraversano la strada - e esprime il desiderio di viaggiare ed esplorare posti
nuovi. Brian, dal canto suo, è diffidente nei confronti degli estranei e non sa
quale accoglienza potrebbe ricevere Charles, con il suo aspetto sgraziato e le
sue manifestazioni eccentriche. Quando il bullo del villaggio viene a
conoscenza dell’esistenza di Charles, la felicità di Brian viene messa a dura
prova.
Non proseguo oltre con il
racconto della trama per evitare di svelare ulteriori dettagli, ma posso dire
che Brian e Charles riesce, in modo
lieve ma non superficiale, a suscitare nello spettatore domande e riflessioni
tutt’altro che banali. Rievocando suggestioni che ci rimandano a grandi
classici della letteratura quali Frankenstein
e Pinocchio, questa pellicola ci
porta a interrogarci sul nostro rapporto con le persone alle quali vogliamo
bene, a quale sia il confine fra desiderio di protezione e libertà individuale,
sulle paure di chi è genitore, magari di un figlio con delle caratteristiche
particolari. Tutto questo senza perdere la leggerezza, con un’aura da fiaba
moderna, sullo sfondo di un paesaggio rurale, dove è la natura a dominare,
grazie anche al fatto che il film è stato girato durante la pandemia. Insomma,
un modo intelligente per trascorrere un’ora e mezza, secondo me adatto anche ai
bambini, e che può diventare lo spunto per riflettere insieme su tematiche
complesse.
Doppia recensione: romanzo e
film che dal libro è stato tratto. I
sette killer dello Shinkansen, pubblicato in Giappone nel 2010 e arrivato
in Italia nel 2021 con la traduzione di Bruno Forzan, è un thriller originale,
anche se, come vedremo, non mancano i richiami ad elementi classici della
tradizione del giallo e dei film d’azione.
Il termine “Shinkansen” indica la rete ferroviaria
giapponese di treni ad alta velocità percorsa dai cosiddetti “treni proiettile”,
dai quali prende il titolo il film distribuito dalla Sony, nelle sale italiane
dal 25 agosto 2022.
Proprio su uno di questi treni, in partenza da Tokyo, si
incrociano e finiscono con l’intrecciarsi indissolubilmente le sorti di alcuni
assassini professionisti, che, da buoni esperti della malavita, si fanno
chiamare con dei soprannomi. Alcuni di loro hanno scelto il proprio nome
d’arte, come i soci Lemon e Mikan (un frutto simile al mandarino, infatti nel
film questo personaggio si chiama Tangerine), o utilizzano un cognome
altisonante, come Oji, che significa “Principe”, mentre c’è chi si ritrova un
nickname affibbiato da altri come presa in giro: è il caso di Nanao, a suo dire
perseguitato dalla malasorte, che viene chiamato Coccinella, noto simbolo
portafortuna. La donna che passa gli incarichi a Coccinella, l’enigmatica
Maria, che per buona parte del romanzo è solo una voce al telefono, spiega a
Nanao che il lavoro che dovrà svolgere è facile e privo di rischi: deve
semplicemente salire sul treno a Tokyo, rubare una valigetta e scendere alla
prima fermata. Niente di più e niente di meno, un’attività pulita e di tutto
riposo.
Coccinella, abituato agli imprevisti che la sfortuna si diverte ad
architettare ai suoi danni, è poco convinto, ma decide di accettare, anche se
porta con sé un kit con vari strumenti per ogni evenienza. E fa bene, perché poco
dopo la partenza del treno si rende conto che la faccenda è molto più
ingarbugliata di come gliel’aveva prospettata Maria: tanto per cominciare, la
valigetta da rubare appartiene a Lemon e Mikan, ben decisi a non cederla a
nessuno. Lemon e Mikan, così simili nell’aspetto fisico da essere noti come “i
gemelli” nell’ambiente malavitoso, per carattere non potrebbero essere più
diversi. Lemon, impulsivo e impaziente, è un appassionato del cartone animato Il trenino Thomas, dal quale ha tratto
innumerevoli lezioni di vita che non si stanca di elargire a chiunque lo
ascolti, e soprattutto all’amico Mikan, riflessivo e grande lettore dei
classici della letteratura mondiale. Ma chi è, invece, il giovane che viaggia
insieme a loro e che ad un certo punto appare inequivocabilmente morto? Cosa
contiene la valigetta che Coccinella deve rubare e chi è il vero mandante del
furto? Tutto questo non passa inosservato allo sguardo indagatore di Oji,
studente delle scuole medie dall’aria compita e personaggio forse più
inquietante del romanzo, che viaggia insieme a Kimura, un uomo sulla
quarantina, alcolizzato e con un torbido passato. Il legame che unisce il
ragazzino di buona famiglia e l’uomo dall’aspetto poco raccomandabile è
costituito dal figlio di Kimura, il piccolo Wataru, che giace in coma in un
letto d’ospedale. Ma perché fra i passeggeri c’è anche un serpente
molto velenoso? E ancora, cosa ci fa sul treno un delinquente di mezza tacca
come il Lupo, che passa il tempo a raccontare di aver compiuto imprese
mirabolanti senza che nessuno gli creda?
Sono questi - e molti altri - gli
ingredienti che Isaka Kōtarō, classe 1971, miscela con sapienza per confezionare un thriller
un po’ lungo, ma avvincente, nel quale ogni capitolo è presentato dal punto di
vista di uno o due dei personaggi. L’ambientazione sul treno è sicuramente un
elemento non nuovo che si richiama alla tradizione del giallo, basti pensare al
capolavoro di Agatha Christie Assassinio
sull’Orient Express, ma Kōtarō aggiunge qualche tocco di modernità in grado
di svecchiare il tutto. Il treno, peraltro, funziona bene anche come una sorta
di “camera chiusa”: è un luogo nel quale, tra una fermata e l’altra, nessuno
può scendere né salire e i personaggi hanno un limitato spazio per muoversi.
Coccinella e la sventura che si porta dietro non sfigurerebbe in un film di
Tarantino, anche se i personaggi che mi ricordano di più le creature del
maestro di Pulp Fiction sono
indubbiamente Lemon e Mikan, caratterizzati da piccole manie e autori di
dialoghi frizzanti e al limite del surreale.
Passiamo a Bullet
Train: a me è piaciuto, anche se non lo definirei una trasposizione
fedelissima del romanzo. I personaggi del libro sono tutti giapponesi, mentre
la quasi totalità degli attori è occidentale. Alcuni, come Coccinella,
interpretato da Brad Pitt, o Lemon e Tangerine, che hanno il volto di Brian
Tyree Henry e Aaron Taylor Johnson, presentano una caratterizzazione
psicologica abbastanza dettagliata che tutto sommato rispecchia quella delineata nel romanzo.
A mio avviso, invece, non si può dire lo stesso di Oji, che i lettori arrivano
a conoscere molto bene, e nel film invece viene descritto (anzi, descritta) in
modo un po’ superficiale. Al contrario, il Lupo del film ha una storia
personale complessa e un background decisamente interessante, a differenza del
suo omologo del testo scritto.
Le modifiche
realizzate nel passaggio dal libro alla versione cinematografica non si fermano
qui, e mi rendo conto che questo potrebbe non piacere a chi si aspetta una resa
aderente all’originale. D’altronde, credo che l’operazione di trasporre un
romanzo in un film per il cinema abbia delle affinità con la traduzione da una
lingua a un’altra, attività che espone sempre i traduttori alla possibilità, e
talvolta alla necessità, di effettuare dei cambiamenti e quindi di rischiare le
critiche da parte del pubblico esigente. Non vorrei scomodare la secolare
questione “Tradurre è un po’ tradire?”, anche se mi piace ricordare una
citazione del traduttore François Vaucluse: “La traduzione sposa il
testo, lo tradisce di nascosto, ma, se è compiacente, lo arricchisce”.
Senza
avventurarmi nel terreno accidentato di questioni filologiche, che vanno al di
là dell’obiettivo di questa recensione, credo però che sia interessante
riflettere su come i film, che traspongono la parola scritta nel linguaggio
visivo, per non parlare dell’apporto dato dalle colonne sonore, possano
prendersi delle libertà rispetto ai romanzi. Libertà che non danneggiano il
testo di partenza, ma anzi, possono arricchirlo di suggestioni nuove e spunti
di riflessione inediti. Bullet Train
non è, dunque, una trasposizione totalmente fedele de I sette killer dello Shinkansen, ma è
un film divertente, dal ritmo serrato, interpretato da attori in ottima forma e
ricco di scene d’azione. Se pensate che possa essere il vostro genere, non
lasciatevelo sfuggire.
Michela Marzano, classe
1970, docente di filosofia all’università di Parigi René Descartes ed ex
deputata, ha sempre creduto di provenire da una famiglia di sinistra. Il padre,
professore alla Sapienza, ha infatti educato lei e il fratello ai valori
dell’uguaglianza, del rispetto e della solidarietà. Era proibito dire “Chi se
ne frega!”, perché costituiva un richiamo al “Me ne frego!” di fascista
memoria. La Marzano, durante la sua esperienza parlamentare, si è contrapposta
ai partiti di destra e si è battuta per difendere i diritti delle persone
omosessuali e transessuali. Si può quindi comprendere il suo sgomento quando le
capita in mano una copia del certificato di battesimo di suo padre e scopre che
invece di chiamarsi solo Ferruccio, come lei pensava, suo padre, nato nel 1936,
all’anagrafe è registrato come Ferruccio Michele Arturo Vittorio Benito.
Vittorio come il re e Benito come il Duce. Non ne aveva mai sentito parlare, ma
quando chiede spiegazioni il padre, con grande serenità, risponde solo: “Tuo
nonno era fascista”. Aggiunge che l’aveva sentito ammettere dal padre nel 1953,
ma poi dice di non ricordare molto altro. Ma come, si chiede Michela, e gli
ideali con i quali sono stata allevata? Com’è possibile che a casa non se ne
sia mai discusso? Michela comincia così una lunga e complessa ricerca fra
archivi cartacei e online, in biblioteche e cantine, che la porta a scoprire
che il nonno Arturo, nato alla fine dell’Ottocento, arruolatosi nella Grande
Guerra, era poi diventato un fascista della prima ora e non aveva mai preso le
distanze dall’ideologia di Mussolini. Michela si immerge sempre di più in
questa parte taciuta e nascosta della sua famiglia, un pezzo di storia del quale
nessuno parla volentieri, limitandosi ad ammettere a denti stretti che sì, il
nonno era fascista, ma era anche una brava persona, un magistrato competente e
un uomo sempre pronto ad aiutare chi aveva bisogno. Ma è davvero possibile far
convivere queste due dimensioni, si chiede sua nipote, il ritratto personale di
un uomo buono e l’aspetto politico di un sostenitore della dittatura? Il libro
si svolge su un doppio binario: da una parte il lavoro di scavo doloroso e
faticoso, ma necessario, della Marzano nella storia della sua famiglia e della
sua vita, dall’altra il racconto degli eventi della politica italiana dalla
Marcia su Roma fino al secondo dopoguerra. L’autrice constata che il processo
di defascistizzazione delle istituzioni del nostro Paese non si è mai
concretizzato, anzi, la scelta di un’amnistia generalizzata ha consentito a
tantissimi esponenti di rilievo del partito fascista di continuare a rivestire
alte cariche e condizionare così la vita politica italiana per molti anni.
L’oblio può essere sembrato un’opzione che conduceva alla pacificazione
sociale, ma la mancanza di un’autentica riflessione collettiva sul vero
significato del ventennio fascista comporta il rischio di ripetere i medesimi
errori e orrori, ci ammonisce la scrittrice. Solo la conservazione della memoria
del passato può aiutarci a condannare con fermezza le leggi razziali,
l’esaltazione della violenza e l’autoritarismo e ad abbandonare la retorica
degli “italiani brava gente” e “Mussolini ha fatto anche cose buone”. E non
crediamo che si tratti di eventi ormai superati, di sbagli che non commetteremo
più: un’interessante inchiesta di Fanpage.it ha mostrato che nei movimenti no vax
e no green pass che manifestano nelle piazze si infiltrano i partiti di estrema
destra, che strumentalizzano quelle istanze per trovare un seguito e cercare di
avvicinarsi ai palazzi del potere. E’ ancora valido l’ammonimento di Primo
Levi: “Meditate che questo è stato”. Il passato può ritornare e solo la memoria
può aiutarci a non cadere di nuovo negli stessi errori.
Post scriptum: quando sto
per pubblicare questo post, sento alla televisione la notizia della morte di Enrico Pieri, uno degli ultimi sopravvissuti dell’eccidio nazifascista di Sant’Anna
di Stazzema, avvenuto il 12 agosto del ’44. Aveva dedicato molte energie a
raccontare ai giovani la violenza cieca che in quel giorno causò la morte di 560
persone, 130 delle quali erano bambini. Pieri si è spento a 87 anni, ora tocca
a noi, anche se non siamo stati testimoni diretti, continuare l’opera di
racconto delle atrocità della guerra.
Celeste Ng non è una novità su questo blog: alcuni anni fa avevo parlato del suo romanzo d’esordio in questo post. In Everything I Never Told You, l’autrice americana di origine cinese raccontava con grande capacità di introspezione psicologica le vicende di una famiglia i cui membri, schiacciati dal peso di un’identità difficile da gestire, vivono nel silenzio e nella sofferenza. L’esplorazione del tema dell’identità personale ritorna in Tanti piccoli fuochi e ad essa si affianca la riflessione su un’altra tematica: la maternità, compiuta o mancata. Lo sfondo della storia è la cittadina (non immaginaria) di Shaker Heights, in Ohio, che l’autrice conosce bene, perché vi è cresciuta. Shaker Heights è stata fondata agli inizi del Novecento con una pianificazione urbana estremamente rigida e tutt’ora molti aspetti della vita della comunità sono regolati con grande precisione: per esempio, la spazzatura deve essere lasciata sul retro delle case e non di fronte, dove non sarebbe bella da vedere.
Questo video racconta di bravi cittadini con valori solidi, ambiziosi, grandi lavoratori, impegnati nella vita della comunità: insomma, l’etica protestante e lo spirito del capitalismo. Elena Richardson, una delle protagoniste del romanzo, incarna proprio questo spirito: ha progettato la propria vita senza lasciare nulla al caso. Prima gli studi, poi il lavoro come reporter nel giornale locale, in parallelo il matrimonio e l’arrivo dei quattro figli. È precisa, affidabile, non ha vizi, fa attività fisica regolarmente, tutto nelle sue giornate è pianificato con cura. E quindi, come mai all’inizio del romanzo la troviamo scarmigliata e in vestaglia, che assiste impotente e atterrita all’incendio della sua bella casa, causato dai tanti piccoli fuochi del titolo? E dov’è Izzy, la figlia minore, la pecora nera, quella che Elena non è mai riuscita a comprendere? Per rispondere a queste domande, bisogna riavvolgere il nastro fino all’arrivo a Shaker Heights di Mia, artista afroamericana dall’animo vagabondo, e di sua figlia, l’adolescente Pearl. Viaggiano sole, su una vecchia auto carica dei loro pochi averi. Hanno girovagato per gli Stati Uniti, e Mia ha promesso alla figlia che finalmente si fermeranno. Elena si interessa a quella donna dalla vita così diversa della sua, e decide di fare un’opera buona offrendole di abitare in un appartamento di sua proprietà in cambio di alcuni lavori domestici. Mia e Pearl entrano così di soppiatto nel ménage familiare dei Richardson, e la ragazza fa amicizia con i figli di Elena, affascinata dalla loro sicurezza in sé stessi. La tranquilla quotidianità di Elena deraglia bruscamente quando una sua amica di vecchia data e il marito, dopo anni di infruttuosi tentativi di avere figli, riescono a diventare genitori di una deliziosa bambina cinese, abbandonata davanti a una caserma dei pompieri in una fredda notte d’inverno. Veniamo a scoprire che Bebe Chow, la madre della piccola, è una conoscente di Mia. La giovane donna, clandestina, era stata lasciata dal fidanzato, e ritrovatasi sola e senza denaro in un paese straniero, in preda alla disperazione era arrivata alla dolorosa decisione di separarsi dalla bambina. Se ne era pentita però ben presto, e quando scopre che la sua May Ling, adesso rinominata Mirabelle, è stata adottata, decide di avviare una battaglia legale per riaverla. La maternità si declina in modi diversi in Elena, Mia, Bebe e Linda, la madre adottiva di May Ling/Mirabelle. Elena desiderava una famiglia numerosa e l’ha ottenuta, ma non riesce a stabilire un contatto con la ribelle Izzy, che forse le assomiglia più di quanto sia disposta ad ammettere; Mia, madre giovane e single, magari non aveva programmato di crescere una figlia, ma quando se l’è ritrovata fra le braccia si è resa conto di amarla moltissimo. Bebe ha tentato disperatamente di dare alla sua bambina l’opportunità di una vita migliore, ma si rende conto (troppo tardi?) che le cose avrebbero potuto andare diversamente, mentre Linda, esasperata dagli aborti spontanei, vede in Mirabelle l’unica chance di realizzare il proprio desiderio di diventare madre, costi quel che costi.
Celeste Ng si conferma una narratrice di talento, abilissima nell’indagare la psicologia, i pregi e i difetti dei propri personaggi. Dal romanzo è stata tratta la serie omonima disponibile su Amazon Prime Video. L’ho iniziata e gli attori scelti mi sembrano perfetti, ma ho notato che alcuni elementi sono stati modificati rispetto al libro, quindi probabilmente non è una trasposizione del tutto fedele.
E' disponibile online il programma del Festival della Mente, che si terrà a Sarzana (SP) il 4, 5 e 6 settembre e avrà come filo conduttore il tema del sogno, declinato in ambito scientifico, artistico e umanistico. Quest'anno, nel rispetto delle norme di prevenzione del Covid-19, il Festival si svolgerà in un formato ridotto e rinnovato: sono previsti circa venti incontri in presenza con il pubblico, che verranno trasmessi contemporaneamente in live streaming sul sito del Festival e su Facebook e YouTube, e sei contributi video di ospiti internazionali, visibili online sul sito e sui canali social. Trovate tutte le informazioni e il programma completo qui.